A valle dell’incontro tra i soci, Il Meglio di @NOI del 21 gennaio 2021, sul tema delle vaccinazioni Covid-19 e passaporto vaccinale, Vittorio Bertola riassume qui le posizioni dei Copernicani emerse durante l’incontro.
1. Piano vaccinale
Riteniamo che, allo stato attuale delle risorse messe a disposizione della ricerca medico-scientifica medicina, la vaccinazione capillare della popolazione idonea sia il migliore strumento disponibile per affrontare la pandemia da Covid-19 nel medio e lungo periodo, e che sia un dovere di tutta la popolazione idonea partecipare a tale campagna.
La vaccinazione può difatti permettere di raggiungere i seguenti obiettivi:
- Ridurre fortemente il rischio di malattia grave e di morte per gli individui che vengono vaccinati;
- Ridurre significativamente il numero di malati gravi e conseguentemente la pressione sul sistema sanitario;
- Ridurre fortemente la velocità di trasmissione dei contagi e il numero degli stessi, permettendo quindi un alleggerimento generale delle precauzioni e delle restrizioni alle libertà personali;
- Al termine della campagna, permettere il raggiungimento di una immunità di gregge a protezione della totalità della popolazione.
Il piano vaccinale italiano dovrebbe dunque essere concepito per permettere il raggiungimento più rapido possibile degli obiettivi suddetti.
A questo proposito, esiste indubbiamente una tensione tra i primi due obiettivi e i secondi due; per i primi due obiettivi, bisognerebbe dare priorità alle fasce di popolazione con la maggiore mortalità e il maggior rischio di sviluppare forme gravi della malattia (“fasce a rischio”); per gli altri due obiettivi, bisognerebbe dare priorità alle fasce di popolazione più mobili e più attive socialmente (“fasce di diffusione”).
Esiste una sola categoria di persone che ricade contemporaneamente in entrambe le fasce, ovvero il personale sanitario impegnato nel soccorso e nella cura dei malati di Covid-19 e nelle strutture, come ospedali e R.S.A., in cui si sviluppano più facilmente focolai. E’ stato quindi corretto dare massima priorità a questa categoria, pur con un distinguo rispetto a chi lavora nel settore sanitario senza avere contatti significativi con i malati di Covid-19.
Ciò detto, si pone la necessità di scegliere se successivamente privilegiare le “fasce a rischio” – ossia gli anziani e altri gruppi che vivono in condizioni di forte promiscuità, come i carcerati – o le “fasce di diffusione”, ossia coloro che svolgono lavori che prevedono il contatto con altre persone per tempi prolungati (insegnanti) o in grandi numeri (autisti del trasporto collettivo, lavoratori di sportello), la lunga permanenza in luoghi chiusi e affollati (cassieri della grande distribuzione, personale della ristorazione), o lo spostamento continuo sul territorio nazionale e internazionale (trasportatori, agenti di commercio).
La vaccinazione prioritaria delle fasce a rischio permette una riduzione immediata e visibile del numero di decessi e dell’occupazione delle terapie intensive, ma, data la ridotta mobilità di queste fasce, non riduce la circolazione del virus; al contrario, la riduzione della velocità e del numero dei contagi genera effetti sulla mortalità ritardati di almeno alcune settimane, ma, per la natura esponenziale della malattia, può avere effetti moltiplicativi tali da generare nel complesso un risultato migliore dopo i primi 2-3 mesi di campagna. Per questo motivo, raccomandiamo che la scelta delle future priorità venga effettuata sulla base di modelli matematici documentati, basati sui dati di contagio misurati tra le varie categorie e resi pubblicamente disponibili.
In proposito, non possiamo che esprimere preoccupazione per lo stato embrionale e poco trasparente del piano di vaccinazione italiano. Al di là di qualche indicazione molto generica, non risultano ancora chiare e motivate le priorità della campagna di vaccinazione una volta terminata la fase del personale sanitario.
Le prime vaccinazioni sono state effettuate presso centri con una elevata concentrazione della popolazione da vaccinare (Ospedali, RSA) e presentavano pertanto una notevole semplificazione logistica rispetto alla fase in cui la vaccinazione dovrà essere estesa sul territorio nazionale. Ricordiamo che in Italia solo il 12% della popolazione vive in centri di grandi dimensioni.
Non risulta l’evidenza di uno sforzo organizzativo che permetta effettivamente di somministrare, diffusamente sul territorio, i milioni di dosi al mese previsti a partire dalla primavera. Ci colpisce la differenza con l’ampia, precisa e pubblica documentazione fornita in proposito da altri Paesi europei.
Riteniamo dunque urgente che il governo e il Commissario Straordinario forniscano pubblica indicazione di quanto sopra. Il rischio, infatti, è come minimo quello che tutta la campagna vaccinale si svolga tramite decisioni d’urgenza all’ultimo minuto, sottraendo ai cittadini e alle forze sociali la possibilità di discutere e influenzare tali decisioni; e come massimo, quello che la campagna vaccinale, anche in virtù di emergenti difficoltà logistiche, si svolga con crescente ritardo rispetto ai piani e al resto d’Europa, determinando migliaia di morti non necessari e miliardi di euro di danni aggiuntivi all’economia.
A questo proposito, esprimiamo comunque la nostra convinzione che una campagna vaccinale di dimensione così grande debba necessariamente coinvolgere tutti gli attori in grado di contribuire ad essa, pubblici e privati. Invitiamo il governo dunque a permettere la somministrazione del vaccino anche tramite il canale della sanità privata, come già avvenuto con chiari risultati per i test di positività; e a provvedere ad autorizzare normativamente la vaccinazione da parte di altre categorie professionali, come medici di medicina generale e farmacisti previo una formazione specifica, purché sia garantita la presenza di un medico in caso di necessità di trattare una reazione allergica.
2. Passaporto sanitario
Va premesso che in Italia i passaporti sanitari, chiamati in passato “fedi di sanità”, sono stati utilizzati anche nelle precedenti pandemia. Inoltre, già oggi la certificazione dello stato sanitario è in molti casi richiesta, anche dall’Italia, per gli spostamenti sia all’esterno che all’interno della Unione Europea.
Riteniamo che la possibilità per ogni cittadino di certificare con facilità e sicurezza la vaccinazione o il risultato di un test diagnostico per il COVID-19, sia indubbiamente auspicabile. Si può discutere (come faremo nella successiva sezione del documento) dell’uso più appropriato dei dati in questione, ma la disponibilità dei dati stessi è comunque positiva, dato che essi sono già oggi requisito frequente almeno per la mobilità internazionale, anche su decisione unilaterale di altri Stati che l’Italia non può sindacare.
Va ricordato che, trattandosi di un vaccino nuovo e di un virus nuovo e mutevole, la durata della immunità non è nota a priori e, come sempre accaduto alla introduzione di vaccini, si apprenderà nel tempo. Non si può escludere la necessità che in futuro si riscontri un decadimento della efficacia del vaccino e la conseguente necessità di richiami. Non potendo stabilire a priori la durata dell’efficacia, è opportuno che il certificato vaccinale, a differenza ad esempio di quanto avviene per il vaccino contro la febbre gialla, sia digitale e non cartaceo, consentendone l’aggiornamento automatico della scadenza.
Una soluzione digitale realizzata secondo i principi della privacy by design, peraltro, risulta maggiormente tutelante della riservatezza dei dati personali in quanto consente di presentare il solo dato di stato vaccinale, senza nessun altro dato personale, a differenza di quanto avviene per le certificazioni cartacee.
Riteniamo dunque che sia urgente approntare una soluzione digitale che permetta l’acquisizione e l’esibizione di questi dati tramite applicativo per smartphone. L’alternativa della documentazione cartacea, in uso in questi ultimi mesi, andrebbe mantenuta per quelle ridotte fasce di popolazione che non hanno uno smartphone, ma non può costituire la soluzione generale.
Al fine di garantire la privacy delle persone, auspichiamo che la soluzione digitale sia basata sul modello della “self-sovereign identity”, mediante la memorizzazione sul dispositivo dell’utente di attestazioni firmate crittograficamente, che possono poi essere esibite mediante un codice visuale e verificate tramite un’applicazione di lettura, eventualmente con un collegamento in rete per la verifica della validità effettiva delle firme.
Sarebbe opportuno che l’Italia evitasse di sviluppare una soluzione esclusivamente nazionale e, per quanto possibile, si unisse o perlomeno interoperasse con gli sforzi europei e internazionali per creare uno standard a questo scopo, sia pubblici che privati (ad esempio gli sforzi delle compagnie aeree tramite la IATA); questo anche perché la mobilità internazionale costituisce già ora il primo caso d’uso per questi dati.
Proprio perché in questo caso d’uso il requisito da provare spesso non è il vaccino ma un test negativo, rimane comunque fondamentale che il sistema sia in grado di certificare sia la vaccinazione che il risultato dei test antigenici e dei test di positività.
È ovviamente necessario dare le massime garanzie di privacy e sicurezza dei dati. A questo scopo, chiediamo che tutto il codice degli applicativi, compreso il lato server, sia rilasciato sotto licenza libera e che si eviti l’utilizzo di API e librerie di terze parti private, specialmente se non rilasciate allo stesso modo.
3. Uso del passaporto sanitario nella determinazione delle restrizioni
Vorremmo in conclusione fornire il nostro contributo al dibattito, indubbiamente complesso e difficile, sull’obbligatorietà del passaporto sanitario e sul suo uso per dare diritto al portatore a una riduzione delle restrizioni alle libertà personali altrimenti vigenti.
Per prima cosa, va ricordato che nemmeno il miglior vaccino garantisce con certezza l’effettiva immunità e non contagiosità del soggetto, per cui non può dare diritto all’eliminazione di precauzioni di base a basso costo ed alta efficacia come il distanziamento e l’uso delle mascherine. Queste precauzioni potranno essere eliminate solo nel momento in cui la presenza del virus tra la popolazione sarà nulla o quasi. Il discorso può invece riguardare le restrizioni aggiuntive, ad esempio ai movimenti o all’accesso ai luoghi chiusi, introdotte per ridurre ulteriormente la velocità del contagio nelle fasi di alta circolazione del virus.
In termini utilitaristici, la riduzione delle restrizioni a singoli individui, resa possibile dalla certificazione di un ridotto rischio di contrarre la malattia in forma grave e/o di trasmetterla agli altri, genera un effetto benefico sull’economia, tanto più forte quanto maggiore è il numero di persone che possono accedere a tale riduzione.
D’altra parte, si pone indubbiamente un tema di equità sociale almeno in due dimensioni:
fin tanto che l’accesso alla vaccinazione non è liberamente disponibile a qualsiasi cittadino, ma è limitato a specifiche fasce decise dal governo, si introdurrebbe una discriminazione su diritti fondamentali legata a uno stato del singolo cittadino determinato politicamente dall’alto;
assodato che il vaccino non conferisce comunque immunità nel 100% dei casi, altre fasce sociali a ridotto rischio di contagiosità (ad esempio i portatori di anticorpi ottenuti a seguito di malattia) o – stante il fatto che le restrizioni sono motivate con la pressione sul sistema sanitario – a ridotto rischio di contrarre forme gravi della malattia potrebbero a buon diritto reclamare uguale trattamento.
Per superare queste obiezioni, possiamo proporre i seguenti principi:
Perché una determinata restrizione possa essere alleggerita o eliminata per le persone in un determinato stato sanitario deve sussistere una chiara e diretta relazione tra la motivazione di salute pubblica addotta per la restrizione e lo stato sanitario delle persone in questione. Per esempio, una restrizione come il divieto di accedere a eventi pubblici di grandi dimensioni, motivata con la necessità di evitare il rischio di un grande numero di contagi, può essere eliminata o ridotta per le persone che dimostrino un rischio di essere contagiose inferiore a una data (piccola) percentuale.
Il passaporto sanitario di ciascun individuo deve dunque permettere di calcolare una stima almeno di due probabilità, ossia la “probabilità di essere contagiosi” e la “probabilità di contrarre la malattia”. Tali probabilità possono essere calcolate a partire dal profilo sanitario nel tempo di ciascun trattamento sanitario registrato nel passaporto; ad esempio, l’effettuazione di un determinato vaccino in un determinato giorno, tramite le curve statistiche di immunità alle forme gravi della malattia e di immunità alla trasmissione del contagio dei vaccinati per quanto ad oggi noto, permetterà di stimare l’attuale valore di tali probabilità; l’effettuazione di un tampone o di un test antigenico un certo numero di giorni prima, in base alla sensibilità e specificità di tale tipo di test, ai suoi risultati e alla probabilità di contagio successivo nella zona di residenza della persona, porterà anch’essa a stimare tali probabilità; e i risultati statistici di più strumenti sanitari (ad esempio vaccino e tampone, o due tamponi a distanza di alcuni giorni) possono essere combinati secondo le leggi della probabilità.
Riteniamo comunque che le energie collettive vadano innanzi tutto focalizzate sul piano vaccinale in sé e sul raggiungimento il prima possibile di una immunità di gregge, o almeno di una situazione in cui qualsiasi cittadino desideri vaccinarsi possa farlo in maniera semplice, tempestiva ed economica, potendo inoltre ripetere la vaccinazione tempestivamente quando il suo effetto sarà svanito.
In assenza di questa condizione, infatti, l’introduzione su larga scala di prerogative legate allo status sanitario rischierebbe di esacerbare le tendenze già viste all’aggiramento delle priorità vaccinali da parte di individui “raccomandati”, nonché le fratture sociali tra diverse categorie ognuna delle quali reclamerebbe una pronta vaccinazione per se stessa. Se poi tra le prerogative vi fosse la possibilità di riprendere attività commerciali e lavorative interrotte dalla pandemia, la pressione potrebbe diventare insostenibile. Tutto questo diverrebbe insomma un elemento di distruzione della coesione sociale con conseguenze potenzialmente pericolose.
Proprio per questo motivo, l’associazione del passaporto sanitario a prerogative speciali potrebbe essere nel frattempo sperimentata sulle sole categorie che già hanno accesso al vaccino, e per prerogative specifiche delle categorie stesse (ad esempio, l’accesso del personale sanitario a posizioni lavorative nelle R.S.A.).
Sotto queste condizioni, tuttavia, la realizzazione di un sistema di certificazione dello stato sanitario dell’individuo può costituire un ulteriore aiuto per ridurre gli effetti negativi della pandemia, sia sul piano sanitario che su quello economico.
Foto di jacqueline macou da Pixabay
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