La nostra Vision

28 marzo 2018

Un approccio copernicano

La nostra esperienza quotidiana ci mostra che la terra è piatta e che il sole sorge ad est e tramonta ad ovest, girando intorno ad essa. Oggi sappiamo che non è così, ma per trovare dignità, Copernico dovette combattere per molti anni contro il senso comune, le tradizioni e il potere delle istituzioni di allora, per affermare il sistema eliocentrico: una terra che ruota attorno al sole e non viceversa come ipotizzato nell’allora dominante sistema Tolemaico. Copernico ebbe successo dove altri fallirono, ovvero nel combattere l’oscurantismo ponendo al centro la scienza e  la conoscenza, non le presunzioni o l’esperienza superficiale.

Questa teoria infatti non era nuova. Già Aristarco di Samo, tre secoli prima di Cristo, aveva postulato una teoria eliocentrica con la terra che ruota attorno al proprio asse. Non è sufficiente avere ragione, è necessario che gli altri la riconoscano.

“Per ogni problema complesso esiste una soluzione semplice, elegante e sbagliata.”

H.L. Mencken

Noi rifuggiamo le soluzioni che sono frutto di osservazioni superficiali o presunzioni, che non si basano sulla conoscenza e sulla scienza, che promettono soluzioni semplici e immediate a problemi difficili e complessi. Lo facciamo con un approccio inclusivo, motivando e spiegando le nostre ragioni, anche quando apparentemente sono controintuitive, per cercare di dare un contributo rigoroso al dibattito politico.

Si è affermata nel tempo l’idea che la politica possa risolvere i problemi di ciascuno e che ciò dipenda dal partito che conquisterà il potere. Si ritiene che un nuovo leader o un nuovo partito di governo possa risolvere tutti i problemi dei cittadini con una bacchetta magica .

A causa di questa aspettativa miracolistica la politica finisce per occupare ogni spazio di comunicazione e di dibattito; la politica però è solo uno dei fattori di un sistema complesso e nemmeno il più rilevante e, così pensando, finiamo per trascurare ciò che determina la crescita e lo sviluppo.

Non esiste un modo facile per risolvere i problemi complessi della nostra epoca. Attribuire colpe e responsabilità non aiuta ad affrontarli. Sono questioni difficili che richiedono molto lavoro, costanza, energie e competenze. Gli italiani hanno dimostrato più volte la loro intraprendenza, originalità e dedizione. La sfida del futuro è alla nostra portata, se decidiamo di affrontarla senza disperderci in scorciatoie che non portano lontano.

Le responsabilità della politica

Uno dei compiti principali dell’amministrazione è fare scelte per distribuire la ricchezza mediando tra alternative opposte. È la concertazione in materia di salari, fisco, pensioni e destinazione della spesa pubblica a impegnare i dibattiti in cui i principali esponenti politici accrescono la loro notorietà e cercano e trovano sostegno. Sono cose importanti: riguardano la ripartizione della ricchezza creata dalle persone che lavorano.

Ripartire la ricchezza però è semplice, è una cosa che si può decidere rapidamente per soddisfare questo o quel collegio elettorale, proteggendo questa o quella corporazione o categoria, serbatoio di facile consenso. E si può fare anche a debito, pregiudicando le aspettative per le generazioni successive.

I leader dedicano grande impegno a esprimersi su temi che soddisfano aspettative di breve termine dei cittadini, come pensioni, stipendi, agevolazioni fiscali; sono cose importanti ma riguardano solo le modalità di ripartizione delle risorse, non i fattori essenziali per generare nuova ricchezza.

Storicamente, la spesa è stata gestita in modo inefficiente. Non si riesce ad avere un reale miglioramento del bilancio, né tagliando gli sprechi pubblici, con tentativi che vanno semmai riducendo la qualità dei servizi spesso attraverso tagli lineari e blocco del turnover; né tantomeno creando le condizioni per la crescita. La conseguenza è il sempre maggiore indebitamento che rinvia sine die il problema e  appesantisce il debito a carico delle future generazioni.

È invece essenziale stimolare la crescita nel lungo periodo e non consumare oggi le sementi necessarie per generare raccolti futuri.

Il ruolo fondamentale della politica è offrire una visione del mondo e stimolare e far crescere i valori immateriali alla base della produzione di benessere (regole, conoscenza, efficienza, competitività, ricerca, imprenditorialità, organizzazione, merito). Questi sono i veri produttori di ricchezza e attrattori di investimenti. Lo sviluppo è determinato dalla capacità di produrre nuova ricchezza a partire da fondamentali fattori immateriali.

Questi temi, essenziali per il futuro del Paese, con rare eccezioni, sono trascurati nel dibattito politico.

Il ruolo delle imprese

Le aziende italiane si trovano a competere nel mondo partendo da una situazione di relativo svantaggio rispetto ai nostri principali concorrenti in vari indicatori fondamentali, dal costo dell’energia fino al carico di lavoro necessario per ottemperare agli obblighi amministrativi e fiscali, e più giù fino al livello delle infrastrutture di trasporto e telecomunicazione, alla carenza di competenze, all’inerzia della macchina amministrativa pubblica.

Sono le imprese e i lavoratori – assunti e liberi professionisti – l’elemento fondante del sistema produttivo che genera ricchezza, occupazione e gettito fiscale.

A meno di non voler tornare a un’epoca preindustriale, rinunciando ai progressi di secoli di sviluppo, si deve accettare di vivere in una realtà sempre più interconnessa di società industrializzate. Per restare nella modernità e non scivolare nel sottosviluppo una società industriale moderna e degna di tale nome ha bisogno di una macchina amministrativa all’altezza della situazione.

Con qualche rara e rilevante eccezione, dovuta perlopiù all’iniziativa dei singoli, in Italia non esiste una tradizione politica tesa al supporto della creazione di ricchezza attraverso lo stimolo dell’imprenditorialità, l’investimento in formazione e ricerca, la possibilità di applicare tempestivamente regole semplici, una minore invasività della macchina burocratica o la capacità di far emergere rapidamente nuove opportunità e nuovi mercati.

Un ambiente favorevole alle imprese è un ambiente dinamico in cui le aziende si confrontano e crescono, un ambiente dai tratti fortemente generativi, con pochi vincoli e molto sostegno alla nascita di nuove imprese, con forti incentivi a sfruttare le grandi opportunità offerte da un mercato globale e dall’evoluzione tecnologica.

Concorrenza e imprenditorialità

La domanda di maggiore concorrenza è sempre assai presente, ma è invocata e richiesta a gran voce per gli altri, non per la propria categoria, che anzi è da proteggere e tutelare. I danni provocati da questi atteggiamenti paternalistico-elettorali si ripercuotono in vari modi sulla società.

I cittadini non beneficiano degli effetti di miglioramento della qualità dei servizi e della riduzione dei costi che la concorrenza può generare.

Gli stessi operatori, adagiandosi in un tranquillo cabotaggio in acque rigidamente protette, trovano in sé scarsa spinta all’innovazione, mentre operatori di altri paesi acquistano competitività e diventano validi concorrenti.

Tutto ciò va a scapito di nuovi entranti, di imprese giovani, energetiche, innovative, che vogliano misurarsi con il mercato sfruttando e creando nuove opportunità.

In un presente in radicale trasformazione per effetto dell’evoluzione tecnologica, ogni settore economico è da aggiornare, reinventare, ricostruire. È una grande opportunità, se decidiamo di fare le semplici cose necessarie per coglierla. Ogni politica viceversa mirata alla tutela corporativa dello status quo finisce per soffocare le ambizioni imprenditoriali dei giovani, motori della creazione di ricchezza e opportunità di ascesa sociale.

La salute di una economia non si misura dal numero di aziende che chiudono, ma sulla capacità di rigenerazione del sistema. Un sistema sclerotizzato produce effetti negativi per i cittadini consumatori, per i nuovi imprenditori e, trascurando effetti placebo di breve durata, per gli stessi operatori del mercato protetto.

C’è solo una risposta possibile alla sedentarietà imprenditoriale: un allenamento continuo, una spinta sostenuta da una sana concorrenza non drogata da protezionismi di matrice politica.

La grande assente: la visione del futuro

Quanto sarebbe più nobile ed elevata una politica che offrisse una visione del futuro piuttosto di quella avviluppata su se stessa, impegnata in mille dibattiti interni, nell’attesa che le esigenze diventino emergenze da affrontare con l’asfittica visione dell’orizzonte di brevissimo periodo.

Quanto più difficile ‒ e lungo ‒ è creare le condizioni per incrementare la ricchezza!  Non ci sono ricette magiche o scorciatoie, ma solo impegno, volontà, lavoro. Si può cercare di incentivare la crescita attraverso incentivi, finanziamenti, carichi fiscali meno oppressivi e soprattutto liberalizzazioni e privatizzazioni, al fine di aprire spazi per nuovi entranti, per liberare risorse, energie e opportunità. Si può cercare di sfruttare una migliore allocazione della spesa pubblica verso investimenti in opere, ma servirebbe anche una legislazione sugli appalti pubblici più moderna e meno farraginosa di quella attuale, più orientata al risultato e meno alla conformità a rigide regole burocratiche che nei fatti deresponsabilizzano chi deve ottemperare a tali regole rispetto al risultato finale. L’iter è stato rispettato e tutto va bene, anche quando il progetto è un clamoroso fallimento.

Non deve stupire se l’atteggiamento della politica nei confronti delle imprese e dell’evoluzione del mercato tende a fare prevalere nel dibattito pubblico la preoccupazione per il futuro, l’incapacità di condividere una visione positiva e quindi l’arroccamento su posizioni fosche ed una domanda di protezione da parte dei cittadini e dei ceti produttivi.

Eppure l’Italia ha sempre dato prova di grande reattività, come dimostra l’esempio recente del piano Industria 4.0. La visione era semplice: il digitale, applicato alla manifattura, può spingere l’innovazione di processo e di prodotto, rendendo le industrie più competitive. L’Italia ha dimostrato grande capacità di reazione: in pochi mesi sono stati rilanciati gli investimenti nel settore manifatturiero, trascinando l’occupazione. Le nostre esportazioni sono cresciute a livelli ultracinesi. L’Istat certifica che l’indice di fiducia nelle imprese è ai suoi massimi. La produttività, il freno a mano tirato dell’economia italiana, ha dato qualche segnale di ripresa.

Un altro effetto positivo è culturale: studi, convegni e blasonati media che assai raramente, in precedenza, sottraevano spazio alle recensioni dei telefonini a favore di articoli su temi più profondi.

La questione non è finanziaria né tecnologica, ma propriamente culturale, di cultura dell’innovazione a livello di sistema paese.

Una politica che guardi al futuro dovrebbe proporre una visione. Dovrebbe operare per rendere strutturali e non episodici esempi di questo genere, per liberare le energie positive, l’inventiva e una proverbiale capacità imprenditoriale riconosciuta e apprezzata dal Rinascimento al made in Italy.

Invece, la visione del futuro è la grande assente nel dibattito pubblico.

La qualità dell’insegnamento e la formazione permanente

L’Italia – lo dimostrano i confronti internazionali – è stata a lungo disattenta rispetto alla qualità dell’insegnamento, soprattutto universitario e in particolare nelle discipline scientifiche. Università, informazione e cultura dominante rifuggono dal merito e dal sapere scientifico, che vengono banalizzati, relativizzati, non compresi, se non dileggiati.

Tecnologia e scienza sono invece essenziali nella promozione dello sviluppo e del benessere umano.

Troppi si rifugiano in atteggiamenti luddisti e passatisti, idealizzando in modo romantico un passato che è d’oro solo nei loro ricordi giovanili.

La tecnologia determina sfide, che non affrontate diventano problemi. Non è negando l’innovazione che si scongiurano i problemi, ma conoscendo questi ultimi e affrontandoli per ciò che sono.

La società in cui il rapporto di lavoro più frequente era quello dipendente/subordinato che durava tutta una vita è già un ricordo. Questo non significa rinunciare all’attenzione nei confronti delle parti più deboli, che vanno aiutate con nuove infrastrutture di sostegno sociale in grado di favorirne la permanenza nel sistema produttivo. La conseguenza di tutto questo è che le politiche di formazione permanente di tutti i lavoratori sono una priorità assoluta.

Il rimpianto di un passato idealizzato

Ogni sviluppo è fatto di progresso e perdite, conquiste e dipendenze, problemi e soluzioni ai problemi. Certo, finora il progresso ha spesso sfruttato risorse in un’ottica di breve termine causando inquinamento, degrado ambientale e riscaldamento globale; ha scardinato molti settori produttivi con l’impoverimento di coloro che non hanno saputo tenere il passo e riorganizzarsi, ha significato un modo diverso di concepire il lavoro, meno sicuro e confortevole.

Ma questa è solo una parte della storia. Se si guarda indietro, il passato preindustriale ha più aspetti negativi che positivi. Meno inquinamento, ma mortalità infantile elevata e aspettativa di vita drammaticamente inferiore. Non c’erano la criminalità organizzata e le nuove mafie, ma la società era violenta; non c’erano i cibi adulterati, ma si moriva per alimenti andati a male e infezioni oggi banali; il lavoro era meno stressante, ma si sfruttavano i bambini. Non esisteva l’attuale fenomeno dell’inurbazione, ma la vita dei più si svolgeva nel cerchio di pochi chilometri e intere giornate venivano spese (soprattutto dalle donne) in faccende oggi delegate agli elettrodomestici.

Ogni variazione dell’ecosistema produce conseguenze negative e positive. Non è pensabile di avere solo il meglio da ciascuno di essi, anche perché la tecnologia determina possibilità, induce problemi e fornisce anche le basi per affrontarli, cosa possibile solo in una prospettiva di sostenibilità di lungo periodo. Questa attenzione alla sostenibilità diventa una opportunità di ricchezza perché offre al mercato globale una soluzione dei problemi di domani, come risulta evidente pensando a tutte le tecnologie per la mitigazione degli impatti che una popolazione globale in forte crescita può avere sull’ambiente.

Occorre gestire il cambiamento, ridurre le negatività ed esaltare le positività dello sviluppo tecnologico. Non è mettendo la testa nella sabbia che riusciremo a farlo; occorrono capacità di gestire la complessità, intelligenza nel capire come le novità si sviluppano e nel progettare un equilibrio migliore. L’innovazione non va subita, o peggio combattuta, ma indirizzata.

Il progresso ha affrancato l’uomo dal peso di lavori disumani in fabbrica e improduttivi in agricoltura. Si è sviluppato il lavoro terziario, più funzionale alla gestione della complessità della moderna economia fatta di commercio, assicurazioni, credito, amministrazione, sanità, trasporti, turismo, cura della persona, istruzione, svago, sport, cultura e arte.

Storicamente i lavori che si sono persi nell’industria e nell’agricoltura sono stati più che recuperati nel terziario. Sembra un paradosso, ma le società più industrializzate sono quelle dove l’impiego di personale nell’industria è meno rilevante. È l’aumento della produttività derivante dalla tecnologia ad aumentare la ricchezza e l’occupazione.

La ripartizione tra addetti all’industria e all’agricoltura, in rapporto agli addetti ai servizi, è un buon indicatore del livello di sviluppo e del reddito pro capite del paese esaminato.

Liberando risorse umane, rimpiazzate dall’uso di tecnologia, energia e servizi terziari, aumenta anche il reddito.

Più produttività, tecnologia ed energia vogliono dire anche più intellettuali, più arte, più cultura.

Il futuro del lavoro

In ambito lavorativo, il necessario aumento della produttività frutto dello sviluppo tecnologico renderà obsolete molte mansioni dei posti di lavoro che diventeranno marginali e tutte le occupazioni saranno trasformate, determinando pressioni sui salari. Ciò induce molte persone, inclusi diversi politici, ad adottare un atteggiamento negativo e persecutorio nei confronti della tecnologia.

Per i Copernicani, innamorati del futuro, tornare a un’era pre-tecnologica è impensabile.

Compito della politica non è assecondare le paure della gente, ma affrontare la realtà e cercare di governare per il meglio il cambiamento, sfruttandone le potenzialità e mitigandone gli impatti negativi.

Molte paure sarebbero evitate se non si inseguisse una visione ottusa del lavoro come un’entità fissa e non elastica. In tale visione, un posto di lavoro si rende disponibile solo se se ne libera un altro e questo non viene sostituito da una macchina. Ma la realtà è molto più complessa, e liberando le forze di una sana imprenditorialità competitiva si creano nuove imprese, nuove funzioni e nuovi lavori. Alcune funzioni spariranno e molte altre verranno create direttamente o indirettamente. Non necessariamente le nuove rimpiazzeranno le vecchie in modo simmetrico ma il cambiamento, se affrontato ed indirizzato a vantaggio dello sviluppo, sarà accompagnato da effetti moltiplicativi virtuosi e maggiore produttività, grazie alla tecnologia, con maggiori risorse per nuove occupazioni. Comunque, nessun lavoro sarà come prima, perché il cambiamento che avviene con la tecnologia modifica le mansioni, i tempi e il valore dei compiti svolti.

Quattro tendenze da tenere presente

Il mondo del lavoro sta cambiando per l’azione congiunta di quattro forze distinte: la tecnologia basata sul digitale, la globalizzazione, l’aumento dell’età della popolazione (con l’Italia nei primi posti) e i cambiamenti climatici e ambientali.

L’OCSE stima che in Italia nei prossimi anni il 10% delle attuali mansioni (non dei posti di lavoro) sarà in tutto o in parte automatizzato, il 35% delle stesse sarà modificato in modo significativo.

L’avvento della digitalizzazione ha portato alla sostituzione di numerosi beni e servizi tradizionali (o loro componenti) con beni e servizi immateriali a costi più bassi, contribuendo a un potenziale deflattivo di origine tecnologica. La digitalizzazione ha toccato anche il lavoro d’ufficio portando all’automazione di funzioni ripetitive, che influisce negativamente sull’occupazione caratterizzata da mansioni routinarie. Queste mansioni sono tendenzialmente appannaggio della classe media, che si è per questo dovuta confrontare con un’erosione del reddito e delle prospettive, con conseguente aumento delle disuguaglianze tra le classi sociali.

In tutto ciò hanno acquisito notevole rilevanza – con rischio di monopolio – gli intermediari digitali online, spesso individuati come acceleratori di un trasferimento dei rischi sui clienti e portatori di sempre maggiore flessibilità, a scapito della protezione sociale dei lavoratori.

È necessario affiancare a queste forze di cambiamento del mondo del lavoro una rete di sostegno flessibile, adattabile ai nuovi contesti sociali ed economici.

Effetti collaterali da gestire

La trasparenza e la lucidità nell’indicare gli effetti collaterali indesiderati che ogni sviluppo economico porta diventano fondamentali anche per progettare un ecosistema politico-tecnologico-educativo-culturale in grado di indicare una direzione di sviluppo alternativa e circoscrivere e affrontare i problemi in questione.

La cosiddetta decrescita potrebbe essere una risposta? In parte. Certo, la riduzione di sprechi ed inefficienze è sicuramente necessaria, ma senza tornare a un passato idealizzato.

Uno sguardo rivolto alle generazioni future ci induce a una maggiore tutela dell’ambiente – una  priorità nazionale portata avanti con preveggenza da movimenti e associazioni – ancora più efficace perché basata sullo sviluppo tecnologico, cardine di un percorso di crescita di lungo periodo.

La ricerca e la cultura scientifica

Voler far parte del plotone di testa delle società avanzate richiede che la politica si occupi dei ritardi che il paese ha accumulato in vari settori strategici, quelli che fanno la differenza tra una nazione moderna e una società rivolta al passato.

Per troppo tempo gli investimenti nella ricerca sono stati considerati un lusso, l’incapacità di premiare il merito e la tragedia della fuga dei cervelli sono stati visti come un male minore, non come una grave perdita complessiva per il paese.

Non ci può essere un paese moderno se la società non ha come stella polare la promozione della formazione e della cultura scientifica, soprattutto in presenza di rigurgiti di un pensiero prescientifico, spesso accompagnato da mancanza di rispetto dei valori di convivenza civile.

La tradizione del nostro paese ci richiede una sforzo particolare nella promozione della cultura scientifica. Ancora troppo spesso la parola “cultura”  evoca solo i contenuti delle terze pagine dei quotidiani, dove predominano eventi letterari e dibattiti su questioni umanistiche.

Le parole che usiamo, i significati che attribuiamo loro, condizionano il nostro modo di pensare. Associare alla cultura solo la parte umanistica del sapere è un messaggio fuorviante, che produce esternalità negative.

Sono state prodotte opere importanti e capolavori che hanno riempito biblioteche e musei. Ma tutto ciò non può bastare. Leggere e capire la società, i fattori che hanno cambiato il mondo e di conseguenza il futuro degli uomini richiede anche altri strumenti.

In passato le società erano più semplici; il cambiamento aveva altri ritmi, la tecnologia incideva in misura molto minore sulla direzione dello sviluppo e c’era il tempo di assimilarne il senso. Oggi tutto è molto più veloce e la cultura umanistica si è trovata con il fiato corto per capire quello che sta succedendo. Solo una approfondita conoscenza scientifica e tecnologica, anche coadiuvata da un rigoroso approccio epistemologico, può contribuire alla comprensione dei grandi cambiamenti in corso, perché dispone degli strumenti adatti.

Mentre i licei sono sempre più gettonati dai nostri studenti, il mercato del lavoro richiede diplomati dagli istituti tecnici e dagli ITS, cioè ragazzi che oltre alle competenze teoriche abbiano acquisito competenze che consentano loro accesso al mondo del lavoro. Gli appelli a riguardo dei diversi settori industriali del nostro paese non si contano.

Secondo i dati ISTAT, l’Italia avrebbe bisogno ogni anno rispettivamente di ventimila ingegneri, quindicimila economisti e statistici, ottomila fra medici e altre figure sanitarie in più. Più in dettaglio, si può misurare come gli iscritti a psicologia siano più numerosi degli iscritti a matematica, fisica e informatica messe insieme, o che saranno disponibili tanti sociologi e laureati in scienze politiche quanti laureati in medicina.

L’università non riesce a portare sul mercato le competenze richieste dal nostro mondo produttivo. Tale situazione porta all’impossibilità da parte del mercato del lavoro di assorbire le professionalità formate dal sapere umanistico, creando così frustrazione e ulteriori condizioni di disoccupazione.

Non si tratta solo di una maggiore capacità di leggere il presente e le grandi trasformazioni che lo attraversano per definire le migliori strategie per il futuro. Diventa fondamentale attrezzarsi in questo senso in modo da cogliere le opportunità che questi tempi portano.

Il merito e l’ascensore sociale

Oltre a scommettere sulla crescita del nostro sistema produttivo, diventa fondamentale dare importanza al merito e al suo riconoscimento. Si tratta di una carta rilevante da giocare per poter rimettere in moto il cosiddetto ascensore sociale.

In Italia il merito e la creazione di uguali condizioni di partenza per poter accedere alle diverse opportunità offerte dal sistema scolastico e dalla pubblica amministrazione in generale non sono sufficientemente riconosciuti, per diverse ragioni.

Le conoscenze personali continuano a segnare il destino delle carriere professionali, siano dovute ad amicizie personali, della famiglia oppure dell’appartenenza a un determinato orientamento politico (politica in cui, in virtù dei meccanismi di governance interna, la fedeltà fa premio sulla competenza).

A tale situazione si aggiunge una cultura diffusa che tende a sostenere l’esercizio dei diritti tralasciando l’enfasi sull’assolvimento dei doveri corrispondenti, lasciando indietro coloro con meno diritti e non promuovendo una diffusa eguaglianza sociale. Strumenti per assicurare la solidarietà a chi parte svantaggiato diventano fondamentali soprattutto in un paese come il nostro, in cui le diseguaglianze sono più grandi rispetto ad altre nazioni europee.

In passato, diversi leader politici hanno toccato il tema del merito, senza però poi introdurre soluzioni che effettivamente potessero promuoverlo attraverso la lotta al nepotismo, alla raccomandazione, all’avanzamento di carriera basato sull’anzianità di servizio e all’opacità e alla mancanza di trasparenza nelle assunzioni e nelle promozioni.

In questo contesto la politica, che non ha saputo costruire una cultura diffusa della misurazione e della valutazione dei comportamenti e dei risultati, ha una gravissima responsabilità: la de-meritocrazia come sostanza inquinante che avvelena l’ecosistema nel quale viviamo, rendendoci più vulnerabili anche nei confronti della competizione internazionale.

ità per la comprensione del proprio tempo e la ricerca delle fonti dell’informazione alternativa sono parte integrante della vita quotidiana, non un’emergenza.

Le leve per un futuro di benessere

Riuscire a coniugare crescita e sviluppo è possibile (e anche doveroso), tenendo sempre bene a mente che si tratta di concetti distinti. Quanto allo sviluppo di un sistema paese come quello italiano, è urgente e diviene indispensabile attivare e rafforzare quei fattori di sviluppo tipici delle società avanzate. Prestare la massima attenzione e dare precedenza alle potenzialità e alla generatività. È l’antica regola giustinianea: le qualità nascoste di una società sono da sempre le sue ancore di salvezza e i suoi motori propulsori. E questo vale ancor più per la nostra era moderna.

L’Italia deve scommettere sul proprio futuro con una visione dello sviluppo da perseguire. Un futuro che non sta nei modelli vecchi basati su industria pesante ed edilizia, ma sullo sviluppo tecnologico, la conoscenza e la cura del benessere delle persone, la qualità di vita e lo sfruttamento dei nostri patrimoni caratteristici.

È cruciale che si creino le condizioni capaci di favorire lo sviluppo produttivo e imprenditoriale attraverso una funzione di stimolo rivolta alla ricerca, all’innovazione, alla formazione, alla creazione di opportunità tramite una maggiore concorrenza, valorizzando capacità e i meriti.

 

In conclusione, in un mondo in profonda trasformazione, dove tutto è ancora da costruire, il futuro e i giovani sono il nostro obiettivo; innovazione, conoscenza, imprenditorialità e concorrenza sono le leve da azionare.

Un futuro di benessere può essere raggiunto solo se le forze più dinamiche del nostro paese sono messe in grado di potersi esprimere al meglio: solo se la locomotiva tira e i vagoni prendono velocità.

If you wake up and don’t want to smile
If it takes just a little while
Open your eyes and look at the day
You’ll see things in a different way

Don’t stop thinking about tomorrow
Don’t stop, it’ll soon be here
It’ll be here better than before
Yesterday’s gone, yesterday’s gone

Why not think about times to come?
And not about the things that you’ve done?
If your life was bad to you
Just think what tomorrow will do

[Rit.]

All I want is to see you smile
If it takes just a little while
I know you don’t believe that it’s true
I never meant any harm to you

[Rit.]

Don’t you look back

(Fleetwood Mac, Don’t Stop, 1977)

«Il vostro futuro non è ancora stato scritto, quello di nessuno! Il vostro futuro è come ve lo creerete, perciò createvelo buono!»

“Doc” Brown rivolto a Marty e Jennifer; Ritorno al futuro, 1990

«You can’t connect the dots looking forward; you can only connect them looking backward. So you have to trust that the dots will somehow connect in your future. You have to trust in something — your gut, destiny, life, karma, whatever. This approach has never let me down, and it has made all the difference in my life.»

Steve Jobs, Stanford, 2005

«Caminante, son tus huellas
el camino, y nada más;
caminante, no hay camino,
se hace camino al andar.
Al andar se hace camino,
y al volver la vista atrás
se ve la senda que nunca
se ha de volver a pisar.
Caminante, no hay camino,
sino estelas en la mar.»

Antonio Machado, Campos de Castilla, 1912