Tutto è cambiato: una volta si “girava” nei negozi per trovare il prezzo migliore, oggi dal telefono, in due minuti, confrontiamo i prezzi su siti specializzati. Sono sempre di più ormai quelli che per cercare qualcosa aprono Amazon e fanno la ricerca lì.
Anni fa i prezzi dipendevano dai mercati, e c’erano prezzi diversi per diversi mercati; c’erano alcuni prodotti disponibili solo in certi paesi, e si chiedeva all’amico che andava a Londra di portarceli. Oggi il contadino coreano vede il prezzo delle nostre macchine sui siti italiani o europei.
E per gli imprenditori come vanno le cose? Gli imprenditori sono travolti da una valanga di messaggi sull’industria 4.0, quando troppi, soprattutto in Italia, ancora non hanno né digerito né messo efficacemente in pratica la rivoluzione precedente, la cosiddetta 3.0. Se chiedete la definizione di industria 4.0 a dieci persone, avrete almeno 8 risposte diverse. E le definizioni sono giustamente diverse, perché ognuno ci vede la sua idea e la sua parte di innovazione: siccome tutto è cambiato, anche l’industria deve cambiare.
Di certo sappiamo che il mercato “di massa” è ormai governato dai paesi con un costo di manodopera basso, quindi la nostra nuova via – la nostra rivoluzione – deve essere necessariamente quella di una nuova industria: diversa, liquida, veloce, reattiva, fuori dagli schemi. E per farlo ci vogliono persone veloci, reattive, formate e diverse. Ci vogliono macchine e fabbriche reattive.
L’unico modo è ribaltare il concetto, tendere a un lotto 1 di produzione, cioè ad un’unica unità di prodotto per processo di produzione. Impossibile? Dipende dal settore. Prendete la moda, passata dal su misura dei sarti al prêt à porter, per tornare oggi al su misura, grazie a Internet. Pensate a quanto sono cambiati interi settori come quello dell’auto dove ormai è possibile una personalizzazione spinta, su prodotti di massa. Il consumatore si sta abituando a prodotti personalizzabili e “su misura”.
L’industria 4.0 lavora a monte e a valle. A monte quando nelle macchine c’è intelligenza, connettività, controllo remoto: pensate a cosa vuole dire per la diagnostica e la manutenzione. A valle perché se sviluppo un concept in “tridimensionale” posso mandare alla macchina le geometrie, e comandandola con il programma posso fare un singolo pezzo, quello che è necessario o che voglio personalizzare.
In alcuni settori la stampa 3D è uscita dal laboratorio dei prototipi e diventa produzione. Posso collegare più macchine, avere un “sistema” collegato da robot o carrelli auto-guidati che gestisce da solo gli attraversamenti; telecamere che controllano la qualità, RFID che dicono dove è il pezzo o per chi è quel pezzo.
Come diceva Rutger Hauer nel celebre monologo di Blade Runner: “Io ne ho viste cose, che voi umani non potreste immaginarvi”: oggi sono disponibili sistemi letteralmente inimmaginabili solo alcuni anni fa.
Il vero limite è quello culturale. In un paese in cui molti miei colleghi fanno fatica a capire lo spreco di risorse di un PC vecchio o di un software obsoleto è difficile spiegare che tutto sta cambiando. Che abbiamo davanti uno tsunami che travolgerà chi non sa guardare lontano. Ogni grande trasformazione dei processi produttivi è stata accompagnata da una selezione darwiniana che ha messo fuori mercato chi non era in grado di adattarsi ai cambiamenti, e portato sulla ribalta nuovi protagonisti.
In verità la sfida che abbiamo davanti è intellettuale, non solo economica, perché in questo passaggio conterà di più l’intelligenza. Conteranno la lungimiranza, la creatività, per arrivare a risultati di R&D e stabilire nuovi standard nel mercato.
Perché devo prendere un paio di scarpe in negozio se con poco più posso averle su misura, consegnate a casa e fatte esattamente come voglio? Ci stiamo abituando ad un livello di servizi impossibile anni fa, stiamo passando dal possesso all’utilizzo, dalla fedeltà all’opportunismo del cliente. Per fidelizzarlo dobbiamo studiarlo (big data) e capirlo, personalizzando il servizio.
Certo, possiamo sperare che anche partendo per ultimi potremo fare il salto e arrivare direttamente alle tecnologie più innovative. Quel che è certo è che viviamo in un paese che ha un disperato bisogno di incrementare la produttività e il valore aggiunto: un cambio radicale dei processi e dei prodotti può essere l’occasione per ottenerli.
La campagna in corso è importante perché sensibilizza; gli incentivi sono importanti, aiutano. Ma le imprese che vogliono stare sul mercato innovano e ricercano con o senza incentivi, perché sanno che quello è l’unico modo per stare sul mercato.
La parte che lo Stato dovrebbe fare è quella della creazione delle competenze, del supporto alla ricerca, dell’apertura dei canali imprese–università superando le ideologie anti-impresa troppo spesso presenti nel mondo accademico. Senza le sue università, l’economia USA non sarebbe così avanzata.
Dobbiamo cambiare visione, appoggiandola sulla nostra tradizione di artigiani, di chi “sa fare”. In fondo anche il vecchio edicolante che ti riconosceva e ti dava i tuoi giornali era un antesignano dell’editore che dovrebbe arrivare a darti il “tuo” giornale, composto per te, per i tuoi gusti e i tuoi interessi.
L’autore:
Renato Cifarelli
Imprenditore del settore metalmeccanico, CEO di una azienda che esporta il 95% di macchine per agricoltura in oltre 80 paesi. Da sempre appassionato di informatica e nuove tecnologie, di cui fa gran uso anche in azienda. Con lunga esperienza a vari livelli in Confindustria è oggi anche Business angel e co-conduttore radiofonico.
Questo artico è tratto dal “Dossier Economia Digitale”, pubblicato dall’Associazione I Copernicani nel mese di ottobre 2018.
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