Perché un notista politico o il responsabile del desk di cronaca avrebbero interesse a partecipare a un workshop sull’innovazione? La migrazione da carta a web non ha esaurito le potenzialità del giornalismo digitale, anzi.
Da un decennio l’industria dell’informazione è sotto il tiro della digital disruption.
Ha pagato sulla propria pelle la metamorfosi della torta pubblicitaria. Ha subito la disintermediazione dell’infosfera, prima per mano dei social, in particolare di Facebook indiscusso canale di notizie, e adesso anche delle piattaforme chat e dei gruppi privati di messaggistica.
In alcune aree geografiche, WhatsApp e Messenger superano il social blu per informarsi, condividere e commentare notizie. E difatti, per stare al passo con questa evoluzione di comportamento, Facebook ha ritoccato l’algoritmo di newsfeed. Combatte la sfida degli abbonamenti online con il modello freemium, dei micropagamenti per singolo articolo, ed esplora inedite forme di supporto volontario (come l’inatteso successo di fundraising del britannico The Guardian). Osserva con crescente preoccupazione l’aumento di coloro che di proposito evitano ad oltranza l’informazione.
Interpellato sulle strategie di coinvolgimento di questo pubblico ritroso, un direttore di quotidiano ha ammesso che, se potesse, licenzierebbe l’intera squadra di social media editor per sostituirlo con dei professionisti di audience engagement.
Perché una media company dovrebbe trasformarsi in una tech company
Secondo l’ultimo rapporto elaborato da Reuters Institute for the Study of Journalism dell’università di Oxford, tra il 2018 e 2019, i “deliberati disinformati” passano in media da 29 a 32%.
Non ultimo, le redazioni devono confrontarsi con un inquietante fenomeno: la sommaria equivalenza tra il livello di fiducia dei lettori verso i siti informazione gratuiti e quello dei fruitori di quelli a pagamento. Pericoloso appiattimento del giornalismo di qualità verso la praticaccia dell’acchiappaclick.
Tutte queste sfide portano a considerare sempre con maggiore insistenza la necessità per le media company di trasformarsi anche in tech company.
Una transizione che non investe esclusivamente gli editori nativi digitali. Una testata come il Washington Post con una storia che risale al 1877, conta oggi in organico 300 ingegneri, ossia uno ogni 2,5 redattori, impegnati a sviluppare piattaforme multifunzione a misura della crescente complessità del web.
Dal paywall alla pubblicità, alla raccolta di dati per decodificare i meccanismi di condivisione degli articoli, lavorano con la redazione senza steccati.
Come fare informazione nell’era dei robot giornalisti.
Per trasformare la causa del declino del modello di business dell’editoria classica in un’opportunità per emergere in un radicalmente nuovo mercato delle notizie, è necessario afferrare le basi dei principali tasselli che compongono la chiave per il cambiamento.
Alcuni tra i più qualificati esperti di innovazione introdurranno temi cruciali come l’intelligenza artificiale, alla blockchain, cybersecurity, robotica, economia circolare, all’internet delle cose alla realtà aumentata, per analizzarne i vantaggi ma anche per stimolare un approccio consapevole a un umanesimo digitale.
La giornata è accreditata come corso di aggiornamento formativo per i giornalisti (Odg riconosce 6 crediti formativi) e per i comunicatori (Ferpi riconosce 75 crediti formativi).
Appuntamento per “Fare Informazione nell’era dei robot giornalisti” è lunedì 16 settembre a Torino presso il Campus Luigi Einaudi aula D3, Lungodora Siena 100 . Dalle 10 alle 17. Numero chiuso. #oltregiornalistirobot
Per il programma dettagliato visitate il sito: https://www.mastergiornalismotorino.it/
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