Quanto valgono i tuoi dati

Sono settimane di forti turbolenze per le grandi corporation dei social network: pietra dello scandalo è stata la vicenda Cambridge Analytica, l’azienda rea di aver sottratto dati di milioni di utenti per poi sfruttarli a fini commerciali, violando le regole di Facebook.

Un caso che si rivelerà probabilmente solo uno fra i tanti: il social network di Menlo Park è solo una delle centinaia di piattaforme di cui usufruiamo ogni giorno e che raccolgono quantità di dati impressionanti sulle attività dei loro utenti.

Google, Amazon, Twitter, ma anche tutti i più normali siti web che tracciano continuamente le attività degli utenti: persino adesso, durante la lettura di questo articolo, sono probabilmente attivi alcuni dispositivi di tracking.

Le informazioni sono poi sfruttate economicamente dalle piattaforme, generando ingenti flussi di denaro che consentono la sostenibilità economica e la sopravvivenza delle piattaforme stesse (come anche dei giornali) attraverso i proventi derivanti dalla pubblicità online. I dati sugli utenti costituiscono il vero petrolio dell’era di internet: un’era in cui la pubblicità targetizzata, cioè mirata sui nostri gusti e interessi, si è conquistata un ruolo fondamentale nei modelli di business delle realtà imprenditoriali online e offline. Il problema non sta tanto nel modello di business, bensì nella condizione degli utenti: la maggior parte di loro, di noi, ritiene di usufruire dei servizi internet gratuitamente.

Internet sarebbe un paradiso in cui è possibile consumare senza pagare. Ma così non è. Come diceva Steve Jobs “se il servizio è gratis, il prodotto sei tu”. Gli esempi, da Facebook a Gmail a Android, sono innumerevoli: comodità in cambio di dati.

Il problema di questo baratto è che i contraenti non trattano alla pari: i consumatori, se da un lato sono perfettamente in grado di apprezzare l’utilità del servizio di cui fruiscono, non hanno la percezione del valore di ciò che offrono in cambio, a differenza delle piattaforme.

Un rischio comune degli scambi non monetari: la moneta serve appunto a quantificare il valore dei beni scambiati. La distribuzione asimmetrica delle informazioni offre la possibilità a uno dei due contraenti, le piattaforme web, di sfruttare economicamente la controparte, più debole, generando inefficienza economica. È un classico caso di contraente debole.

Cosa può fare il singolo

I recenti sviluppi in materia di normativa della privacy –in particolare a livello europeo– tentano di risolvere il problema ponendo i singoli individui in condizione di trattare alla pari con i social network, colmando l’asimmetria distribuzione delle informazioni.

I pilastri di questa strategia sono due: obbligare i social a fornire informazioni (notice) e fornire agli utenti la possibilità di scegliere quali informazioni fornire alle piattaforme e quali no (choice). Un esempio di una policy notice è la recente possibilità di scaricare i dati che le piattaforme detengono sul nostro conto: ha iniziato Facebook, e il nuovo regolamento della Commissione europea obbligherà anche gli altri. Il secondo filone ci è familiare quando utilizziamo le app sui nostri smartphone: è infatti possibile negare l’accesso alle nostre foto, ai nostri contatti e a altri dati. Tuttavia, se apprezzabili progressi hanno luogo nel filone notice, per quanto riguarda la choiche la strada da percorrere è ancora lunga.Se la possibilità di rimuovere autorizzazioni è quasi sempre presente, spesso la mancata concessione di dati provoca un ridimensionamento delle funzionalità. La teoria economica ci insegna però che in casi come questi la libera contrattazione degli individui è in grado di portare alle soluzioni più efficienti: gli individui devono essere in grado di decidere quanto dei propri dati concedere e in cambio di cosa.

Una interessante soluzione ottimale da questo punto di vista, sebbene ancora utopica nella sua realizzazione, è quella recentemente prospettata su Wired: un hub pubblico dal quale ogni utente possa autorizzare l’utilizzo dei propri dati per i vari servizi, per poterne ricevere un pagamento attraverso i meccanismi della blockchain. Imporre pagamenti individuali per l’utilizzo dei dati personali. C’è chi propone anche la soluzione inversa: pagare l’iscrizione a Facebook per evitare l’utilizzo delle proprie informazioni. Una soluzione però di corto respiro. Richiederebbe la modifica sostanziale del modello di business dei giganti del web e verrebbe probabilmente adottata da una stregua minoranza.

L’unione fa la forza

Le policy di notice e di choice hanno come obiettivo di porre i singoli consumatori in grado di fronteggiare meglio le piattaforme dei social network, che partono da una oggettiva condizione di vantaggio. Tuttavia, da sole, queste strategie possono rivelarsi non definitive.

L’azione dei singoli, per quanto efficiente a livello individuale, potrebbe non portare a una situazione ottimale. Nel caso della gestione dei propri dati questo esito può essere determinato da diverse motivazioni: in primo luogo si pone un problema di azione collettiva. Agire a livello individuale per proteggersi dall’utilizzo incontrollato dei propri dati, proteggere dunque la propria privacy, può risultare più faticoso -in termini per esempio di tempo consumato- di quanto non sia il beneficio

L’azione individuale è inefficiente anche per un altro motivo: i raccoglitori di informazioni riescono a ottenere dati sul proprio conto anche grazie alle interazioni di altri utenti non così attenti alla propria privacy. Il valore dei dati raccolti aumenta esponenzialmente all’aumentare del numero degli utenti, delle interazioni e delle reti di contatti.

Quali sono dunque le azioni collettive possibili? Regolamentazione pubblica, ad esempio limitando i tracker e i cookie che seguono la nostra navigazione online. Tassazione, richiedendo un contributo a chi detiene e sfrutta i dati degli utenti per poi distribuire il gettito ai cittadini. Aumento della consapevolezza degli utenti, ad esempio obbligando le piattaforme a fornire informazioni sulla raccolta e l’utilizzo dei dati (le nuove regole europee ne sono un esempio).

Internet non può essere un far west

Il dibattito è appena iniziato, ma la convinzione diffusa che i servizi internet siano gratuiti è probabilmente sulla via del tramonto (finalmente). Agli inizi del nuovo millennio i cantori della rete ne elogiavano la libertà. Un’assenza di regole compatibile con un internet ancora popolato solo da informatici e visionari. Oggi la nostra vita digitale assomiglia sempre più alla vita reale: ecco perché alla prima sono sempre più necessarie le regole, i diritti e i doveri della seconda. Per non lasciare internet in mano alla regola del più forte.


L’autore:

Matteo Sartori – Tortuga

Tortuga è un think-tank di studenti di economia nato nel 2015. Attualmente conta 42 membri, sparsi tra Italia, Francia, Belgio, Inghilterra, Germania, Austria, Senegal e Stati Uniti. Scrive articoli su temi di economia, politica e riforme, ed offre alle istituzioni un supporto professionale alle loro attività di ricerca o policy-making.


Questo artico è tratto dal “Dossier Economia Digitale”, pubblicato dall’Associazione I Copernicani nel mese di ottobre 2018

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