Ecco perché serve un nuovo approccio normativo per le startup innovative

Di Massimo Simbula

Airbnb ha rivoluzionato le norme in materia di localizzazione degli hotel, Uber ha posto molti giudici di fronte la complessa questione della applicabilità ad una piattaforma internet di norme sui requisiti per le licenze di taxi e Pinterest ha costruito un business intorno alla pubblicazione di immagini protette da copyright.
I sistemi di raccolta di investimenti in cryptovalute attraverso le cosiddette Initial Coin Offering (ICO) vanno avanti in tutto il mondo ma la mancanza di norme certe rischia di creare pericolose zone grigie.
E ancora, startup che disintermediano le procedure di noleggio di imbarcazioni, acquisto e consegna di cibo, servizi legali e contabili, servizi di ristorazione in casa (il cosiddetto cook sharing) o startup che offrono la condivisione di appunti universitari per consentire a milioni di studenti di accedere ad una miniera di informazioni essenziali per una migliore formazione universitaria in modalità quasi gratuita.
Il mondo, si sa, sta cambiando ad una velocità tale da portarci di fronte un cambio di paradigma e l’approccio normativo e regolatorio deve necessariamente fare i conti con questo cambiamento.
Nel nostro paese le startup, pur agevolate da un importante impianto normativo che ha apportato numerose deroghe al diritto societario e del lavoro e ha introdotto numerose agevolazioni fiscali (parlo del noto D.L.
179/2012 e successive modifiche), rischia di guardare al passato.
Ciò non solo per norme inadeguate e obsolete ma per mancanza di norme semplici ed efficaci che evitino di lasciare all’interprete (Giudici e Avvocati) il difficile compito di inquadrare le mutevoli fattispecie dell’intermediario in internet e delle sue responsabilità.
Sappiamo che l’Unione Europea sta facendo, in questo senso, un importante lavoro di regolazione a livello comunitario (si veda la discussa e recente proposta di normativa in materia di copyright o la European Blockchain partnership, iniziativa che punta a favorire la collaborazione tra gli stati membri per lo scambio di esperienze e di expertise, sia sul piano tecnico sia su quello della regolamentazione, programma al quale l’Italia ha recentemente aderito).
Ma possiamo e dobbiamo fare di più al fine di creare un ecosistema “friendly” che consenta alle imprese innovative di crescere rapidamente nel paese nel rispetto delle nuove norme a tutela dei consumatori e degli investitori.
Norme che però non devono rappresentare un freno o un impedimento per realtà a forte innovazione tecnologica e che possono contribuire al rilancio dell’economia del nostro paese oltre che essere fonte di attrazione di ulteriori investimenti dall’estero.
Sono avvocato e dalla fine degli anni ’90 ho seguito i processi di trasformazione industriale dettati dalla rete.
Ho avuto la fortuna di assistere Governi anche esteri, organizzazioni internazionali e grandi realtà aziendali strutturate, sia come advisor esterno, sia come legale interno di uffici legali aziendali.
Poi, qualche mese prima dell’avvento del noto D.L. 179/2012, ho avuto la fortuna di lavorare per incubatori certificati di startup innovative, fondi di investimento specializzati in startup e per tante startup innovative fatte di giovani donne e uomini che hanno messo in discussione tutte le loro certezze per affrontare con entusiasmo e competenza la nuova fase dell’industria 4.0.
Molte di queste startup (vere e proprie multinazionali tascabili) falliscono ma i soci contaminano l’ecosistema, costituiscono nuove realtà o avviano nuove iniziative. Altre, invece, hanno successo e spesso devono emigrare all’estero dove possono portare ai massimi livelli i loro progetti di crescita scalare.
Sono per lo più brillanti sviluppatori, ingegneri, matematici, economisti che vogliono cambiare la loro vita e questo paese.
In meglio.

Ho imparato da tutti loro e ho dovuto destrutturarmi per comprendere (almeno  in parte) quanto sia necessaria in questo paese un cambio di paradigma e un legislatore (se mi passate il termine) con un pensiero laterale.
Destrutturarsi non significa dimenticare i nostri principi costituzionali o le sacrosante norme a tutela del consumatore o degli investitori. Significa semplicemente non guardare al passato e smetterla di adottare un principio formale in materia di innovazione ma dare rilevanza agli aspetti sostanziali.
Inutile tentare di ricostruire una “valley” tecnologica qui in Italia, come tante volte si sente, scimmiottando il modello statunitense.

Credo invece sia necessario per tutti gli operatori del settore, in primis, giudici, avvocati e legislatore, affrontare la regolazione dei prodotti e servizi ad alto valore tecnologico, con lo sguardo proiettato verso il futuro, con un approccio visionario, che certamente non è adatto agli schemi professionali del passato.

Solo se si riesce a fare sistema (parole abusate ma quanto mai utili in questo momento) potremmo stare al passo di altri paesi che stanno già attivamente intervenendo in questi settori (si veda il caso dell’Irlanda, di Malta o della Svizzera), ed essere parte di un vero e proprio rinascimento del nostro paese.
Ho scoperto, ormai da tempo, l’assenza di confini territoriali nella mia professione e la necessità di competenze multidisciplinari per poter affrontare le sfide che ci attendono.

Vorrei che tutti noi potessimo veramente vivere in un mondo senza confini e con regole chiare, semplici e alla portata di tutti.
Così come la rete ci ha insegnato.

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