Tim e Open Fiber: questa fusione s’ha da fare?

Si prevede che due operatori così lontani nella strategia, nell’operatività e nella finalità si fondano. Ecco le nostre considerazioni.

Sono ormai 5 anni che i principali organi d’informazione del settore riportano periodicamente news, rumors e articoli in merito alla fusione tra Tim ed Open Fiber.

Non ricordiamo qui chi siano e che cosa facciano le compagnie coinvolte e tralasciamo di ripercorrere il Piano Banda Ultra Larga, per focalizzare l’attenzione sul merito e sulle conseguenze dell’eventuale fusione, alla luce della contrarietà espressa dall’AGCOM da una parte, e dal favore evidenziato dal Governo, dall’altra.

I segnali di una dirittura d’arrivo, salvo ripensamenti, sembrano evidenti: Tim si sta avvicinando al modello Open Fiber nel cablaggio; non difende più l’integrità della sua rete ma la vuole separare volontariamente, mantenendone però il controllo come operatore verticalmente integrato tra rete e servizi, tra wholesale e retail. Open Fiber, per contro, in tre anni ha steso più fibra di quanta ne abbia stesa Tim nell’arco degli ultimi 20 anni.

A questo punto ci domandiamo: qual è il vantaggio che alla nostra Nazione può derivare dalla privatizzazione di Open Fiber? Quale garanzia si può avere che la nuova entità nata dalla fusione prosegua il cablaggio dell’Italia intera? Che cosa ci si aspetta concretamente dalla infrastrutturazione di rete del Paese? Con quali modalità verrà realizzata? Quali sono gli obiettivi dell’operazione?

Domande, a nostro avviso, legittime poiché dettate non dall’etica, bensì dalla legge di mercato.

Open Fiber ha il compito di realizzare e mettere in servizio un’infrastruttura a prova di futuro; Tim deve invece rendere conto ed operare sulla base degli interessi dei suoi azionisti, che non sempre coincidono con quelli a lungo termine del bene comune.

Ecco, allora, che davanti all’eventuale operazione di fusione, ci sentiamo in dovere di evidenziare due suggerimenti che coniugano la ragione economica alla ragion di Stato.

• Se matrimonio dev’essere, si faccia in modo che la dote sia rappresentata da un chiaro, esplicito e ben definito obiettivo di infrastrutturazione in FTTH al quale venga inequivocabilmente ricondotto il sistema di retribuzione variabile, che deve rappresentare la parte preponderante dell’intera retribuzione annua, per il management.

• La nuova società operi esclusivamente sul mercato wholesale con una netta separazione dagli operatori retail.

Con questi accorgimenti eviteremmo di ripetere gli stessi errori che anni fa furono commessi nell’operazione di privatizzazione di Telecom, permettendo di definire una chiara roadmap di sviluppo del processo di infrastrutturazione e, allo stesso tempo, scongiurando i rischi di indebolimento delle dinamiche concorrenziali tra gli operatori sul mercato.


Di seguito l’articolo pubblicato su Il Foglio del 16 luglio 2020 a firma Sebastiano Barbanti – Copernicani

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